giovedì 21 dicembre 2017

I got a plan in my mind and i won't let go

La musica è la stenografia dell'emozione. Emozioni che si lasciano descrivere a parole con tali difficoltà sono direttamente trasmesse nella musica, ed in questo sta il suo potere ed il suo significato."
L. Tolstoj

"Dove le parole finiscono, inizia la musica."
Heinrich Heine



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Doc, la verità è che ho trent’anni e parlo da solo, quando sto solo. Beh, a dire il vero, a volte sembra mi scappi anche quando non sto solo, ma mi controllo. Cioè, la maggior parte delle volte mi controllo. Quando non riesco, maschero con un sonoro “uuuffff!” o “mmmmmmh!”.
Ho comprato un pesce Doc. Parlo anche col pesce. Quello non mi risponde. Fa niente! Mi so’ esercitato una vita a fa’ i monologhi. Ho pure ringraziato il pesce rosso nell’elaborato di tesi triennale. Questo però non è un pesce rosso. Manco esisteva davvero un pesce rosso all’epoca. L’ho scritto per fa’ il cazzone, il ribelle. Per fare quello che trova un suo modo per venire meno alle convenzioni sociali, standoci comunque dentro. Il pesce non esisteva, ma io ogni tanto già parlavo da solo. La faccia che ha fatto il Presidente della Commissione quando ha letto i ringraziamenti non me la dimenticherò mai. Doc, io non mi ricordo niente della mia laurea triennale. Ricordo solo di aver attraversato la porta dell’aula quando ho sentito il mio nome, di aver buttato giù il sorso d’acqua più pesante che avessi mai bevuto e di aver preso posto davanti al proiettore. Mi sono risvegliato alla fine, quando il Presidente leggeva i ringraziamenti e ha fatto quella faccia mentre diceva: “lei ringrazia il pesce rosso?!”.
Io, come altre volte, in quei dieci minuti di esposizione della mia tesi mi ero trasformato in un animale da palcoscenico.
È una vita che faccio l’animale da palcoscenico non avendone le doti.
Perché lo faccio? Bella domanda! Ma lei davvero pensa che so’ venuto fin qui, dopo anni, a farmela fare da lei senza essermela mai fatta io per primo? Mi sottovaluta parecchio, Doc! Io sono venuto qua per farmi dare risposte, non per darmele da solo. E se mi costringe a darmele da solo, allora voglio almeno un cazzo di segno di assenso quando becco la risposta giusta! Sto teatrino che mi fa le domande, io rispondo e lei rimane muto deve finire, Doc!
Come so che ho fatto l’animale da palcoscenico? Ho rivisto il video. Una volta sola. Mi secca riguardarmi, soprattutto quando non mi riconosco. Quando sembro uno strafottente, un so-tutto-io. Gli amici, non lo so se per obbligo sociale o per ipocrisia o perché davvero mi vogliono bene, mi hanno detto che faccio paura quando parlo delle mie cose, che faccio strabuzzare gli occhi alla gente. Io mi faccio schifo. Intendiamoci, io lo so che quello che dico quando parlo delle mie cose può essere interessante per qualcuno, ma a me fa schifo il modo in cui lo dico. Io recito. Recito una parte. Cioè, non è che proprio recito. Io sono anche quello. Ma esagero. Io esaspero. Indosso una maschera per volta e la tengo finché non è finita quella performance.
L’ho sempre fatto. E a forza di cambiare maschera, io non so più chi sono. All’esame di maturità ho portato un testo di Luigi Pirandello e di Eduardo De Filippo. Adatto, direi. Nessuno ha capito il disagio che si celava dietro quella scelta. Nessuno ha capito perché mi si richiedeva di parlarne in modo asettico, e io mi sono adeguato. Solo una persona mi ha chiesto, in privata sede, perché avessi scelto quel testo (e solo quello come “percorso” della maturità, senza pararmi il culo sulle altre materie) e poi mi ha chiesto di lasciargli una copia di quella tesina.
Eppure, a dire il vero, se devo essere proprio sincero, io lo so che qualcosa sotto ci sta. Ci sta una marea pronta ad alzarsi e a travolgervi tutti, ma è come se operassi un controllo spasmodico. So di avere la possibilità di affinare le doti, lo so da una vita, ma non lo faccio. Un poco è pigrizia, molto è autocontrollo. Quell’autocontrollo imposto perché so che quello che c’è nella mia testa, il mio modo di fare, il mio modo di vedere, di interagire, di provocare è mal tollerato. Ogni tanto viene fuori, ma solo ripulito. Viene fuori un poco per volta con ogni maschera che indosso.

Io vorrei arrivare, un giorno, a riuscire ad uscire di casa col trucco colato, coi capelli crespi, con lo smalto più dark che ci sta in commercio, vestito solo con una pelliccia e sentirmi a mio agio, perché questo vorrebbe dire che ho mandato finalmente affanculo l’autocontrollo. Vorrei potermene fottere se gli altri si interrogano sul mio orientamento sessuale e dargli comunque sempre modo di dubitarne, per il solo gusto di provocare. Vorrei non avere rotture di cazzo per quello che dico, perché sono quello che sono. Un giorno, forse, lo farò.

mercoledì 12 aprile 2017

Polarize

La musica è la stenografia dell'emozione. Emozioni che si lasciano descrivere a parole con tali difficoltà sono direttamente trasmesse nella musica, ed in questo sta il suo potere ed il suo significato."
L. Tolstoj

"Dove le parole finiscono, inizia la musica."
Heinrich Heine



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Si era appena seduto sul comodo divano di pelle nera e già provava disagio. Avrebbe voluto alzarsi, accendere una sigaretta, camminare avanti e indietro nella stanza, e dire tutto quello che doveva dire. Sapeva perfettamente perché si trovava lì, c’aveva pensato per più di venti anni. Voleva solo dirlo, sentire se gli veniva offerta una soluzione migliore a quelle che aveva trovato lui, e andarsene.
Dissimulò il disagio. Era un mago a farlo. O, almeno, credeva di esserlo. Dall’altra parte del tappeto e del tavolino, quello sprofondato nella poltrona nera già prendeva appunti. A lui sfuggì una smorfia con la bocca mentre intrecciava le dita, e a stento trattenne un sospiro. Quello taceva. Fissava il quaderno, e taceva. Cinque, interminabili, minuti. Lui faticava a tenere ferme le gambe, che avevano necessità di muoversi su e giù. Ad un tratto, si rese conto di aver intrapreso una battaglia persa. Esordì:
“Avrei voluto essere migliore, e mai avrei voluto arrendermi a me stesso. Avrei voluto lottare ancora contro l’affollamento dei pensieri nella mia testa, mettendoli in ordine, scartandone parecchi, e tenendo solo quei pochi buoni. Tutto il giorno sento voci nella mia testa, e il loro eco. Spesso sento i pensieri altrui su di me, sento il loro biasimo - ma il mio biasimo verso me stesso è più forte - sento le loro prese in giro, sento il loro giudizio. Soffro per tutto questo e mi vergogno. Quando la vergogna è troppa, scuoto la testa a destra e sinistra. Sempre più violentemente. Funziona lì per lì. Rivivo situazioni, risento parole, rivedo immagini. Prima d’ora, non avevo mai creduto nemmeno per un istante che qualcosa o qualcuno mi avrebbe potuto cambiare così tanto da trasformarmi in un disilluso. Andavo fiero delle mie illusioni, perché mi davano la spinta per evolvermi. Attraverso le illusioni puntavo alle stelle. Non che ci sia mai arrivato alle stelle, ma a volte mi sono sentito abbastanza vicino da provarne il calore. E adesso? Adesso le stelle non le vedo, figurarsi sentirne l’energia. Senza quell’energia mi sento svuotato. Forse tutto quello che credevo di essere, semplicemente, non lo sono mai stato. Se così fosse, allora sto guarendo: l’accettazione di sé è il primo passo. Ma come accettare davvero di non avere alcun talento, alcuna idea originale, una briciola di creatività, ed essere solo un depresso cronico con un buco enorme dentro? Uno che di notte si sveglia madido di sudore e ansimante, con l’ennesima crisi di panico.”

Quello in poltrona prendeva appunti, e non rispondeva.

sabato 28 gennaio 2017

Strade

La musica è la stenografia dell'emozione. Emozioni che si lasciano descrivere a parole con tali difficoltà sono direttamente trasmesse nella musica, ed in questo sta il suo potere ed il suo significato."
L. Tolstoj

"Dove le parole finiscono, inizia la musica."
Heinrich Heine



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E così ci siamo quasi. Nella mia vita ho sempre assegnato un valore maggiore di quello reale a certe tappe. E puntualmente, ho commesso un errore: grandi aspettative creano sempre grandi delusioni. Ma questo è un altro discorso, forse. Chissà che questi pochi giorni non segnino una svolta. Un cambio di direzione mi serve, perché quello che faccio da sempre è camminare sulla stessa strada evitando le buche. E allora, ben venga una sterzata improvvisa, verso una strada liscia. Questa volta voglio una strada tutta mia, per non sentirmi più in obbligo di girarmi continuamente di lato per controllare che qualcuno stia proseguendo al mio fianco. Soprattutto, per non sentire più la paura di essere da sola. Desidero una strada liscia perché qualche buca non sono riuscita ad evitarla, e alcune sono state davvero troppo profonde, tanto da lasciarmi credere che non ne sarei mai uscita. Alcune mi hanno reso più forte, altre meno, ma hanno sicuramente contribuito a rendermi ciò che sono. E tutto sommato, pregi e difetti, ho imparato ad accettarmi. Ciò non vuol dire che non desideri continuamente di migliorarmi. Per questo, se mi fermo a pensare a una buca in particolare, sebbene sia riuscita ad oltrepassarla, mi rendo conto che ha prodotto dei danni tali per cui, nonostante le dovute riparazioni, ancora oggi non ho ripreso pienamente il controllo e, peggio, mi ha indotta a fidarmi poco di questa strada e a valutare di abbandonarla. Finora, malgrado tutto, non avevo mai pensato seriamente di farlo. Forse neanche ora, per una sciocca idea sul destino e sulla vita che non è mai facile, ma qualcosa mi fa percepire questo pensiero come diverso dagli altri, che erano chiare manifestazioni di frustrazione e impotenza. Sono convinta che quando ti trovi a percorrere una via, o sai già dove ti porta o ti fidi di dove ti porterà e di non rimpiangere di averla intrapresa. Ripensandoci, quando ho urtato avrei potuto cambiare direzione: c’era uno svincolo vicino. Non l’ho preso. Ho scelto di proseguire, di continuare ad evitare le buche e di guardare sempre di lato. Ma oggi mi chiedo: ne è valsa la pena? La mia fiducia, per me, vale così poco da poterci rinunciare? E così metto in dubbio la parte più profonda di me, mi chiedo se non sia stata davvero la paura a non farmi imboccare con decisione la strada che mi avrebbe portato talmente lontano dalla precedente da non ricordare neanche più come fosse fatta. In quel momento non lo credevo, questo lo so per certo. Pensavo di aver continuato perché sapevo di poter mantenere il controllo nonostante tutto. Credevo in un bene superiore, nel destino, e in varie altre stronzate. Ma oggi, quello che c’era in quella buca ancora mi perseguita. A tratti, solo alcuni giorni, solo in certe circostanze, ma mi perseguita. E allora, per il valore che ho sempre assegnato a certe tappe, cosa devo fare prima di raggiungerla? La mia unica paura ora, mi è chiaro, non è rimanere da sola sulla mia nuova strada, ma non riuscire a trovare la risposta giusta prima di raggiungere la prossima tappa.