L. Tolstoj
"Dove le parole finiscono, inizia la musica."
Heinrich Heine
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Doc, la verità è che ho trent’anni
e parlo da solo, quando sto solo. Beh, a dire il vero, a volte sembra mi scappi
anche quando non sto solo, ma mi controllo. Cioè, la maggior parte delle volte
mi controllo. Quando non riesco, maschero con un sonoro “uuuffff!” o “mmmmmmh!”.
Ho comprato un pesce Doc. Parlo
anche col pesce. Quello non mi risponde. Fa niente! Mi so’ esercitato una vita
a fa’ i monologhi. Ho pure ringraziato il pesce rosso nell’elaborato di tesi
triennale. Questo però non è un pesce rosso. Manco esisteva davvero un pesce
rosso all’epoca. L’ho scritto per fa’ il cazzone, il ribelle. Per fare quello
che trova un suo modo per venire meno alle convenzioni sociali, standoci
comunque dentro. Il pesce non esisteva, ma io ogni tanto già parlavo da solo.
La faccia che ha fatto il Presidente della Commissione quando ha letto i ringraziamenti
non me la dimenticherò mai. Doc, io non mi ricordo niente della mia laurea
triennale. Ricordo solo di aver attraversato la porta dell’aula quando ho
sentito il mio nome, di aver buttato giù il sorso d’acqua più pesante che
avessi mai bevuto e di aver preso posto davanti al proiettore. Mi sono
risvegliato alla fine, quando il Presidente leggeva i ringraziamenti e ha fatto
quella faccia mentre diceva: “lei ringrazia il pesce rosso?!”.
Io, come altre volte, in quei
dieci minuti di esposizione della mia tesi mi ero trasformato in un animale da
palcoscenico.
È una vita che faccio l’animale da palcoscenico non avendone le doti.
È una vita che faccio l’animale da palcoscenico non avendone le doti.
Perché lo faccio? Bella domanda! Ma
lei davvero pensa che so’ venuto fin qui, dopo anni, a farmela fare da lei
senza essermela mai fatta io per primo? Mi sottovaluta parecchio, Doc! Io sono
venuto qua per farmi dare risposte, non per darmele da solo. E se mi costringe
a darmele da solo, allora voglio almeno un cazzo di segno di assenso quando
becco la risposta giusta! Sto teatrino che mi fa le domande, io rispondo e lei
rimane muto deve finire, Doc!
Come so che ho fatto l’animale da
palcoscenico? Ho rivisto il video. Una volta sola. Mi secca riguardarmi,
soprattutto quando non mi riconosco. Quando sembro uno strafottente, un
so-tutto-io. Gli amici, non lo so se per obbligo sociale o per ipocrisia o
perché davvero mi vogliono bene, mi hanno detto che faccio paura quando parlo delle
mie cose, che faccio strabuzzare gli occhi alla gente. Io mi faccio schifo.
Intendiamoci, io lo so che quello che dico quando parlo delle mie cose può
essere interessante per qualcuno, ma a me fa schifo il modo in cui lo dico. Io
recito. Recito una parte. Cioè, non è che proprio recito. Io sono anche quello.
Ma esagero. Io esaspero. Indosso una maschera per volta e la tengo finché non è
finita quella performance.
L’ho sempre fatto. E a forza di
cambiare maschera, io non so più chi sono. All’esame di maturità ho portato un testo
di Luigi Pirandello e di Eduardo De Filippo. Adatto, direi. Nessuno ha capito
il disagio che si celava dietro quella scelta. Nessuno ha capito perché mi si
richiedeva di parlarne in modo asettico, e io mi sono adeguato. Solo una
persona mi ha chiesto, in privata sede, perché avessi scelto quel testo (e solo
quello come “percorso” della maturità, senza pararmi il culo sulle altre
materie) e poi mi ha chiesto di lasciargli una copia di quella tesina.
Eppure, a dire il vero, se devo
essere proprio sincero, io lo so che qualcosa sotto ci sta. Ci sta una marea
pronta ad alzarsi e a travolgervi tutti, ma è come se operassi un controllo
spasmodico. So di avere la possibilità di affinare le doti, lo so da una vita,
ma non lo faccio. Un poco è pigrizia, molto è autocontrollo. Quell’autocontrollo
imposto perché so che quello che c’è nella mia testa, il mio modo di fare, il
mio modo di vedere, di interagire, di provocare è mal tollerato. Ogni tanto
viene fuori, ma solo ripulito. Viene fuori un poco per volta con ogni maschera
che indosso.
Io vorrei arrivare, un giorno, a
riuscire ad uscire di casa col trucco colato, coi capelli crespi, con lo smalto
più dark che ci sta in commercio, vestito solo con una pelliccia e sentirmi a
mio agio, perché questo vorrebbe dire che ho mandato finalmente affanculo l’autocontrollo.
Vorrei potermene fottere se gli altri si interrogano sul mio orientamento
sessuale e dargli comunque sempre modo di dubitarne, per il solo gusto di provocare.
Vorrei non avere rotture di cazzo per quello che dico, perché sono quello che
sono. Un giorno, forse, lo farò.