domenica 11 aprile 2010

Frammenti.

La musica è la stenografia dell'emozione. Emozioni che si lasciano descrivere a parole con tali difficoltà sono direttamente trasmesse nella musica, ed in questo sta il suo potere ed il suo significato."
L. Tolstoj

"Dove le parole finiscono, inizia la musica."
Heinrich Heine


...Inizia a leggere dopo aver avviato il video...




Mi sono svegliata tante volte col desiderio di aver solo avuto un incubo. Mi sono svegliata tante mattine con i pezzi del mio cuore sparpagliati sul letto. Mi sono svegliata sempre con la speranza di vederti e parlarti ancora una volta.
E tante volte, prima di alzarmi, ho dovuto cedere alla dolorosa realtà. E tante mattine, prima di alzarmi, ho dovuto raccogliere e rincollare i frammenti del mio cuore che diventavano più piccoli di rottura in rottura. E sempre, prima di alzarmi, la speranza di vederti e parlarti ancora una volta moriva. Come te.
Mi svegliai e mi alzai anche quella notte quando squillò il telefono. Fu l’ultima volta in cui non mi pesò, l’ultima volta in cui non c’erano pensieri migliori rispetto alla realtà a trattenermi sotto le coperte.
Dall’altra parte della cornetta lei piangeva, singhiozzava ed io non capivo, mi attraversò solo un brivido quando sentii il tuo nome, in preda al panico le dissi, sforzandomi di usare il tono più calmo che potevo, di tranquillizzarsi e smettere di piangere in modo che potessi capire quello che voleva dirmi.
Vorrei non averlo mai fatto. Vorrei non essere stata messa nella condizione di capire quello che era successo.
Riuscii a dirle “Arrivo”, poi la cornetta mi scivolò di mano e da qui per molto tempo ho avuto un vuoto. La nebbia sui ricordi si dissolveva sul volto di lui che mi guardava spaventato mentre io ero seduta rigidamente su una sedia di un lungo corridoio bianco d’ospedale con gli occhi fissi e spenti su di lui. Non sapevo quello che era successo prima. Forse ero stata così tutto il tempo. Non sapevo neanche quanto fosse stato “tutto il tempo”.
Ma una mattina, una di quelle in cui fui costretta a raccogliere i pezzi del mio cuore disseminati sul letto, prima che questo si frantumasse lo sentii gonfio, gonfio come solo l’ira può fare, e ricordai. Colmai il vuoto, sollevai la nebbia e provai un misto di sollievo, per aver finalmente riafferrato le immagini di quella notte, e profondo dolore, più profondo di quello che mi assale ogni mattina, per quello che la mia mente riportò alla luce.
La raggiunsi nel parcheggio del locale di cui, tra i singhiozzi, era riuscita a dire il nome. Molto vicino a casa mia. Arrivai prima dell’ambulanza, prima della polizia, ma non abbastanza velocemente per poterti fermare nel viaggio verso le tenebre, né per poterti dire, semplicemente, addio.
Arrivai e vidi lei tenerti tra le braccia e piangere disperatamente. Corsi verso di voi e quando vi fui davanti, dopo la prima rapida occhiata, crollai a terra. Le gambe non mi reggevano più. I miei occhi vedevano solo grandi macchie rosse e le mie mani cercavano di cancellare quelle sul tuo viso delicato e forse, inconsciamente, speravo che questo potesse svegliarti. Non piansi. Non piansi fino al momento in cui dovetti separarmi da te definitivamente, fino all’attimo prima in cui la bara di legno chiaro fu posta nel loculo di pietra bianca non una lacrima scese dai miei occhi e solcò il mio viso. Ero bloccata. Bloccata da un’ingenua ed illusoria speranza: che per qualche oscura ragione ti svegliassi o che saresti potuta rimanere lì, dormiente per sempre, accanto a me, in modo che potessi vederti e parlarti come era sempre stato. L’illusoria speranza che non eri andata via per davvero.
Ma tu via sei andata. Anzi, qualcuno ti ci ha portata.
La mattina in cui ricordai quello che era successo quella notte provai un odio profondo, una furia spaventosa, come successe quella stessa notte quando vidi i segni delle coltellate sul tuo corpo, i lividi sul viso, il sangue scuro che colava sull’asfalto e il coltello sporco di quello stesso tuo sangue poco più in là. E anche quest’enorme rabbia e il desiderio di vendetta che crebbero rapidamente dentro di me mi impedirono di piangere. Ringhiai a lei se l’aveva visto quel bastardo che ti aveva ridotto così, che t’aveva ammazzata, le urlai di dirmi dov’era andato e da quanto tempo era scappato. Lei non faceva altro che piangere ed io non facevo altro che gridarle di rispondermi fino a quando non mi disse quello che volevo sapere. E con quell’informazione mi ero trasformata in un istante in una macchina vendicatrice: sapevo che avrei vissuto le ore seguenti solo in funzione dell’attimo in cui avrei piantato un fendente nel ventre di quell’uomo per vederlo poi morire in modo straziante sotto i miei occhi senza distogliere mai lo sguardo.
Il mio pensiero andò subito alla ricerca di modi per rintracciarlo: salire in macchina, dirigersi verso il bosco lì vicino dove sicuramente aveva guidato ed abbandonato l’auto sulla quale era salito per far perdere le tracce di sé tra gli alberi. Gli avrei dato la caccia anche tutta la notte se fosse stato necessario.
Non lo fu. Perché in un attimo in cui lei era girata verso il fondo del parcheggio lo vide ed urlò.
Non fui mai più veloce: corsi in quella direzione e lo inseguii per qualche metro prima di riuscire a mettergli le mani addosso, senza preoccuparmi se fosse o meno solo, non m’importava di quello che potevano farmi, l’importante era che lui pagasse per quello che aveva fatto a te.
Lui era chiaramente rallentato dalla droga e dall’alcool, questo mi aveva permesso di raggiungerlo e mi offriva ora un altro vantaggio. E forse avrei dovuto avere pena di lui vista la sua condizione, ma nella mia mente dilagava solo il caos attorno all’idea ossessiva di piantargli il coltello nelle carni.
Mi colpì con un pugno ed io colpii lui, rotolammo l’uno addosso all’altra per qualche minuto finché io non riuscii a rialzarmi per assestargli un colpo sulla nuca con il gomito che lo stese momentaneamente dandomi il tempo sufficiente per estrarre dalla cintura il coltello che mi ero portata dietro, lo stesso con cui lui ti aveva uccisa. Gli diedi il tempo di rimettersi in piedi dritto davanti a me perché lo volevo guardare negli occhi mentre moriva. Rapida sferrai un colpo e quando si accasciò a terra ne inflissi anche un secondo ed un terzo. E rimasi lì. Lo guardai morire. Non provai pietà. Non ebbi rimorso. Sentii la mia ira iniziare a placarsi e il cuore decelerare. Potrei dire che assaporai un istante di pace. Lo assaporai finché non mi resi conto di ciò che era accaduto, di quello che avevo fatto, finché non sentii intimarmi di alzare le mani e gettare l’arma.
Passai il resto della notte in osservazione in ospedale.
Passai le notte seguenti, per diversi anni, in un carcere.

2 commenti:

  1. ...ma il video l'hai girato tu? è molto bello

    RispondiElimina
  2. No... Il video è sul tubo.
    Io scrivo solo, sono un'aspirante artista molto limitata ma con tanta voglia di completarmi prima o poi! :P

    RispondiElimina